Il 25 marzo 2017 l’Europa compirà sessant’anni dopo essersi costruita progressivamente con lo scopo di raggiungere l’unità – una unità funzionale anche ad abbandonare soluzioni fino ad allora trovate sui campi di battaglie che avevano la violenza come principale strategia – scegliendo la logica della risoluzione pacifica dei conflitti.
Quante volte si è tentato di fare l’unione del continente con il fuoco e le spade, con i cavalli e i cannoni, con i carri armati, i bombardieri e i sottomarini, con la minaccia nucleare?

Collaborazione: esempi storici costruttivi senza sottovalutare l’attuale crisi

La realtà è che, come europei, abbiamo superato prove molto più difficili rispetto a quelle che un presente drammatico – che non voglio e che non dobbiamo sottovalutare – ci mostra attualmente. Per esempio, fino ad oggi, noi europei abbiamo saputo evitare un conflitto nucleare, del quale due tragedie nel mondo della produzione dell’energia nucleare come Chernobyl e Fukushima sono lì a ricordarci le gravi conseguenze di una tale scelta. In conclusione, possiamo affermare che l’idea dell’Euratom – in tempi non sospetti – è stata una decisione difficile, ma saggia.

Altro esempio di difficoltà passate e superate magistralmente – senza per questo, ancora una volta, sottovalutare o minimizzare la crisi attuale – è la ricostruzione dell’Europa grazie agli aiuti americani dopo la seconda guerra mondiale. Senza questi aiuti, se ognuno avesse proceduto per la propria strada con l’odio post bellico tra i popoli, non avremmo potuto rialzare la testa, ricostruire partendo dalla libertà e dall’innovazione, almeno non così rapidamente e non così egregiamente come i vari miracoli economici del dopoguerra hanno dimostrato. Ma questo aveva un prezzo.
Gli aiuti americani (il cosiddetto “Piano Marshall”) venivano forniti ai paesi europei a condizione di collaborare insieme. Da qui sono nati l’amicizia franco-tedesca, i vari strumenti e meccanismi per smorzare la storica rivalità fra i due paesi, che spesso, fino ad allora, aveva finito per portare morte e distruzione sul continente europeo. Qualche paese e qualche sistema hanno rifiutato gli aiuti, avviandosi sulla strada di una ricostruzione con risorse economiche, metodi, sistemi e tecniche troppo deboli (con spese militari troppo elevate) per poter aver un effetto positivo e diffuso sul massimo di popolazioni. Per poter essere liberi di pensare e di viaggiare, per poter votare senza essere intrappolati in un regime di controllo delle persone e delle conoscenze, niente è stato più difficile che assistere alla caduta della cortina di ferro, senza sparare un colpo.

Alto esempio è l’aver superato gli egoismi e la superbia delle singole nazioni in Europa. La Francia e il Regno Unito hanno accettato la riunificazione tedesca che si sapeva avrebbe potuto creare un soggetto economicamente potente come quello della Cancelliera Merkel, oggi campione di export tra i paesi europei e che non ha conosciuto la crisi economica degli altri partner europei. La Germania, invece, ha dovuto rinunciare ad un marco tedesco simbolo di una nazione e di una economia forti.

E’ grazie a questo superamento di enormi difficoltà ed egoismi, in un’ottica di collaborazione, che oggi abbiamo la moneta unica che simboleggia l’unione dell’Europa. E’ grazie alla moneta unica che abbiamo anche una relativa stabilità del mondo finanziario europeo, elemento essenziale che si fatica a riconoscere. E nessuno dovrebbe desiderare lo smantellamento della moneta unica o la sparizione di questa valuta per poter capire quanto sia preziosa, anche per la stabilità del commercio internazionale a nostro favore.

Eccole, le anticamere della guerra nelle quali ci siamo spesso trovati a prendere decisioni di pancia (sovranità, interessi imprenditoriali ed economici di alcune minoranze) che hanno aperto la strada a conflitti che pensiamo sempre brevi, ma che invece richiedono anni per essere fermati.

Ci siamo dimenticati tutte queste cose? Forse Marzo 2017 a Roma sarà il luogo giusto – dopo sessant’anni dalla firma dei Trattati – per ricordarci che abbiamo di nuovo una grande sfida davanti a noi, grande ma non impossibile da vincere.

Affrontare la sfida del populismo

La nuova sfida ad affrontare è il populismo odierno ricordandoci di non cadere nella facile trappola della violenza. Questo significa che dobbiamo percorrere lo stesso percorso, applicare lo stesso metodo analitico-pacifico di fenomeni che – fino ad oggi – ha permesso di superare la crisi, evitando il peggio.
Il dramma del populismo è porre questioni vere in un contesto nel quale i ricchi – che oggi non provengono solo da vecchie famiglie dinastiche europee, da proprietari terrieri immobiliari di lungo corso che siano di origini familiari antiche o modeste, da dinastie imprenditoriali europee nate prima o dopo la seconda guerra mondiale, ma anche da nuovi e giovani imprenditori e imprenditrici nati dalle ceneri della caduta del Muro di Berlino, e quelli nati dopo la nascita della recente era digitale, personaggi famosi del sistema del cosiddetto “show business” – diventano sempre più ricchi e la classe media invece continua pericolosamente a ritornare indietro, avvicinandosi sempre più ai livelli di povertà.
Tuttavia, la “verità” cavalcata dal populismo ha delle cause molto chiare che spesso ignoriamo volontariamente o involontariamente, ma delle soluzioni che purtroppo non convincono, fino a poter – in alcuni casi – essere definite come delle soluzioni pericolose.
Il populismo dice delle cose vere, ma propone spesso delle soluzioni – specialmente economiche – che solo in apparenza sembrano ragionevoli. E purtroppo, ci cadono in molti. Eppure, parlare e fare l’apologia del protezionismo, ritorno alle nazioni nelle quali poi – paradossalmente – tutti i campioni del populismi si lanciano complimenti a vicenda, si scambiano delle visite di cortesia e partecipano alle rispettive campagne elettorali nell’attuale contesto mondiale, dovrebbe destare sospetti. Invece no.

Dove sta l’errore? La trappola del populismo sta nel fatto che in Europa, per esempio, vuole andare verso un cambiamento radicale utilizzando lo strumento della divisione interna delle società o della stigmatizzazione di una parte integrante della propria società, come succede in Francia con francesi che, dopo tre generazioni di presenza sul territorio e appartenenza da tempi remoti all’impero coloniale francese, vengono ancora definiti o considerati come “immigrati” per poter racimolare voti.
Negli Stati Uniti, invece, regna il populismo del “far tornare l’America ad essere grande ancora” in una nazione che – certamente colpita dalla disoccupazione – è anche in pieno fenomeno di reshoring e può sognare di ridiventare di nuovo potenza manifatturiera grazie all’energia prodotta in casa e a mercati mondiali da conquistare, una nazione che si dichiara contro la globalizzazione, che stigmatizza gli invasori messicani e nomina più di cinque miliardari nel governo del paese.

Il peccato originario del populismo è questo. Quello di dimenticare in quali contesti sociali si sono formate le società miste ed evolute odierne, come l’apertura delle frontiere dal 1945, la libertà di pensiero che permette a persone di coabitare pur non avendo le stesse idee e ideologie, l’accaparramento delle risorse naturali o l’iniqua ripartizione delle risorse a discapito di alcune popolazioni -comprese nazioni europee – che ha portato a flussi migratori continui di “rifugiati economici” dalla fine della seconda guerra mondiale, e quello di dimenticare tutti i conflitti armati (e spesso ideologici) che hanno provocato delle fughe di rifugiati politici durante e dopo la guerra fredda.
Il sogno della “soluzione nazionale” ha pertanto il peccato originario di nascere dividendo ed escludendo, soprattutto se pensiamo alle sue soluzioni economiche che finiscono proprio per togliere valore alle sue stesse idee come il senso nel quale bisogna intendere il protezionismo oppure, per esempio, l’uscita dall’euro

Così i populismi sono riusciti a trasformarsi nei migliori alleati del sistema che non si riesce a cambiare, perchè finiscono per sterilizzare il dibattito, focalizzare l’attenzione degli elettori su questioni minori o marginali, augurarsi il “tanto peggio, tanto meglio”.

Ricostruire la fiducia

Il PD Marche non deve cadere nella trappola del populismo e la deve aggirare con la ferma convinzione che “impresa, imprenditorialità e internazionalizzazione” possono essere “parole di sinistra” se si tratta di difendere posti di lavoro presenti e futuri, se si tratta di trovare un metodo per inserire più donne in un sistema economico che seppur in crisi è ancora dominato da uomini, se si tratta di guardare all’estero per far funzionare il sistema economico e turistico marchigiano. Chiudersi a riccio potrebbe esse controproducente per tutti noi, per la sopravvivenza del nostro sistema di Stato sociale.

Infine, il PD Marche deve uscire dalla trappola del populismo perché anche “Sicurezza ed Europa” possono essere parole di sinistra. Il terrorismo e gli atti violenti, da qualsiasi parte essi provengano, minano la nostra società nel suo profondo. La sicurezza deve tornare tra gli elementi sui quali la nostra attenzione si deve focalizzare. L’Europa, che ha invece abbandonato la politica dell’umiliazione, non è solo burocrazia e lo ha dimostrato in tempi non sospetti quando ha provato a mettere insieme alcune risorse strategiche come il carbone, l’acciaio e l’energia atomica.

E come italiani, non dobbiamo dimenticare che l ‘Europa si è anche costruita attraverso i conventi e i testi che vi sono stati scrupolosamente tradotti o copiati anche in seguito alle relazioni con il mondo arabo orientale. L’Europa si è costruita attraverso le città, i comuni e le cattedrali, attraverso le rivoluzioni politiche e culturali, senza dimenticare l’arte e la cultura.
Il tempo che abbiamo impiegato a costruire l’Europa e le motivazioni che hanno portato a questo risultato sono troppo preziosi per abbandonare tutto così e soprattutto adesso, in questo contesto storico, nel quale il mondo si è espanso e nel quale parlare come singole nazioni rende gli altri attori sordi e, talvolta, anche muti.

Rischio scampato di Grexit, Brexit ancora in alto mare, salvataggio delle banche, la crisi dei debiti sovrani, la politica di austerità dei paesi del Nord imposta a quelli del Sud, mancate riforme nei paesi del Sud che, come l’Italia, hanno deciso di continuare a mantenere un esercito di politici e di enti e istituzioni inutili pur gridando alla crisi e allo Stato inefficiente e pletorico, mancata efficienza nella comunicazione sui dati di terroristi liberi di scorrazzare da un paese all’altro commettendo stragi, comportamenti irresponsabili di governi nazionali che in sede europea hanno cercato di privilegiare l’interesse nazionalistico, tensioni eccessive con la Russia provocate dai partner dell’Europa dell’Est: tutti questi elementi di frizione e di crisi hanno lasciato dei segni.
Ricostruire la fiducia e la comprensione reciproca sono una tappa irrinunciabile per tutti i ventisette o ventotto partner coinvolti in Europa.

Da una parte, il PD Marche deve tornare a spiegare l’Europa razionalmente, illustrando che alcuni comuni metropolitani italiani hanno – addirittura – un numero di dipendenti di poco inferiore rispetto ai dipendenti dell’intera UE, una proporzione che è meno giustificabile in un contesto nel quale gli enti si indebitano, mentre l’UE spende solo le risorse che gli sono state assegnate. Dall’altra parte, il PD Marche deve tornare a spiegare l’Europa emozionalmente.

Il 2017 deve vederci impegnati più che mai verso un’Europa che vedrà, proprio a Marzo di quest’anno, l’avvento dei sessant’anni dalla firma dei Trattati di Roma. E se il 2017 è già segnato da un cambiamento storico come l’insediamento il 20 gennaio del nuovo Presidente degli Stati Uniti – evento che, solo a titolo di esempio, aggiunge anche “preoccupazione” in un Messico già colpito proprio in questi giorni dall’aumento del costo della benzina del 20% – bisogna riconoscere che la paura e il disorientamento causati da una globalizzazione che non ha avuto solo vincitori sembra essere alla base delle reazioni di chiusura su se stessi e di ricerca identitaria.

Da ciò bisogna concludere che il 2017 deve vederci impegnati più che mai verso l’Europa, che proprio a Marzo di quest’anno ospiterà la celebrazione dei sessant’anni dei Trattati di Roma.
Il PD Marche dovrà impegnarsi – con l’ambizione di diventare un modello per l’Italia intera – verso l’attività di difesa e di partecipazione di ciò che era partito da “una semplice idea” da parte dei suoi fondatori e che si è trasformato progressivamente, diventando una vera e propria “identità” per i cittadini delle Marche e dell’Italia.

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