Dopo il voto che, secondo la commissione elettorale del Regno Unito, ha registrato una partecipazione del 72,2% – con un 48,1% di cittadini britannici a favore dell’Unione Europea e 51,9% della Brexit – per il momento le difficoltà del nuovo Governo di Theresa May non sembrano cessate.
Il Regno sembra trovarsi, ancora una volta, di fronte ad una situazione ricorrente nella sua storia: vince delle guerre, ma poi affiora una moltitudine di problemi con il rischio di perdere territori. Ricordiamo il caso della seconda guerra mondiale, vinta a testa alta, che frutta un seggio nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite composto dalle potenze vincitrici della guerra, ma che già, nel 1947, vede la separazione dell’India, divenuta indipendente dopo un lungo asservimento coloniale, e il progressivo sgretolamento del resto dell’impero “sul quale non tramontava mail il sole”.
Le problematiche che rimangono oggi nel Regno Unito sono strettamente legate alla politica interna. Gli altri paesi stanno aspettando con pazienza di sapere quando il Governo britannico deciderà di far scattare la procedura prevista dall’Art. 50 dei Trattati dell’Unione.
E questo perché hanno necessità di conoscere il loro destino, di continuare il loro percorso di integrazione concentrandosi, soprattutto, su una strenua lotta, indispensabile ormai per avviarsi verso la strada della crescita economica.
Il primo grave problema al quale deve far fronte il governo britannico, che dice di volere lasciare questa Unione, è la tenuta stessa di un’altra unione. È la stessa unione del Regno Unito a trovarsi in pericolo, visto che in Scozia – con un tasso di partecipazione del 67,2% – quasi il 62% degli elettori ha votato per rimanere, mentre circa il 38% ha deciso per l’uscita. Allo stesso tempo lo scenario nell’Irlanda del Nord si presenta con una partecipazione al voto del 62,7% ed un risultato in cui il 55,7% si è espresso per restare nell’UE contro un 44,2% per la Brexit. Considerati i numeri, il rischio di sfaldamento del Regno Unito rappresenterebbe un pericolo per i britannici – del quale si sente poco parlare – a partire dall’unità del suo stesso esercito, costruito anche tradizionalmente su base nazionale e territoriale.
Il secondo problema riguarda l’economia, proprio l’ambito sul quale si era dichiarato che la Brexit avrebbe avuto solo degli effetti positivi. Al momento, le cose non sembrano stare così. In effetti, da quando è passato il voto per l’uscita dall’UE, la sterlina britannica ha perso quasi un quinto del suo valore rispetto al dollaro. Le grandi aziende non hanno attuato i loro piani di abbandono del Regno Unito, previsti in caso di uscita. E neanche le banche. Proprio quelle che, si dice, costituiscano un asso nella manica per l’economia britannica.
Il terzo problema riguarda l’immigrazione, che sembra anche una delle questioni principali per cui si era votato a favore dell’uscita, giocando sul sentimento di xenofobia e odio del diverso, ignorando peraltro che questo fenomeno riguarda anche tre milioni di cittadini provenienti da altri paesi dell’UE. Oltre alla città di Londra – e altre grandi città – molti amministratori locali hanno già dichiarato il loro desiderio, cioè che gli immigrati restino e non si sentano cacciati via, soprattutto in luoghi dove l’economia locale ha bisogno di loro. E molti di loro sono impegnati nel sistema sanitario, proprio quello verso il quale i fautori del “no” avevano detto che avrebbero dirottato le risorse tolte all’UE, gli stessi che – ancora – non riescono a decidere di uscirne.
Il quarto problema è più recente e riguarda una battaglia giudiziaria, nata dal ricorso di alcuni cittadini, fenomeno che sta richiedendo al Governo di cambiare rotta e di non essere più il solo interlocutore dell’UE per la Brexit. In effetti, il Primo Ministro Theresa May e il suo governo, diviso più che mai sulle strategie di uscita – grazie alla defezione di alcuni suoi colleghi alla Camera bassa – sarà d’ora in poi costretto a consultare di più il Parlamento per le questioni riguardanti la Brexit.
Ma il problema più grave per i britannici – forse secondo solo a quello dell’unità dell’unione – è il dilemma se uscire o restare nel mercato unico e quale prezzo il Regno Unito sarà costretto o sarà disposto a pagare.
Ci sono voluti due conflitti mondiali e milioni di vittime per insegnarci a lavorare insieme piuttosto che a farci la guerra.
A quasi 60 anni di distanza – il 25 marzo 2017 ricorrerà l’anniversario della firma dei Trattati di Roma – una grave crisi potrebbe mettere a rischio una organizzazione che ha, come prima missione, la pace tra i suoi membri e tra i popoli. Poi, senza trascurare tutte le perdite di tempo, “giochi politici” e altre speculazioni, che non sono da individuare solo nel Regno Unito, ma anche in alcuni governi dei paesi dell’Est che – meno di 25 anni fa – vivevano sotto dittature feroci e movimenti populisti, euroscettici e qualcuno di estrema destra. Alcuni di questi sono presenti anche dalla parte dell’Europa occidentale, che pensavamo politicamente più “matura”.
Oggi continuare con perdite di tempo, giochi politici e speculazioni, significa frenare la ripresa economica, alimentare un ritardo nel porre fine a politiche di austerità e – soprattutto – allontanare un orizzonte dove riprendere finalmente la strada della crescita.