La questione di un’Italia divisa – diversa nelle sue componenti linguistiche, sociali ed economiche – non nasce oggi. Si tratta di una caratteristica intrinseca alla nascita stessa del nostro Stato. L’Italia, infatti, si è costruita piano piano, superando vari assetti tra cui la monarchia, il ventennio fascista, uno Stato nel quale ad un certo punto della Storia votava addirittura meno del 2% della popolazione. Poi arrivò la Repubblica con la Costituzione, fino all’adesione all’Unione Europea.
Tuttavia, tali differenze e disparità sono andate diminuendo – non sempre in modo soddisfacente e c’è ancora molto lavoro da fare – e non deve esserci nessun dubbio sul fatto che moltissimi di questi fattori sono “condizioni pre-esistenti all’UE”. Sono queste che continuano a generare e a spiegare, in parte, molte tensioni che ancora sussistono tra varie forze politiche. Purtroppo, siamo un paese nel quale si vuole tuttora ignorare certi fatti, specialmente quando riguardano il divario di sviluppo economico e le profonde difficoltà organizzative e di adattamento (digitalizzazione) che lo caratterizzano.
La “questione meridionale” studiata da Pasquale Villari e Sidney Sonnino è ancora attuale? La vera domanda è: ma anche questa è colpa dell’Europa? La questione della burocrazia è colpa dell’Europa? La problematica scoperta facendo lezioni in remoto per i nostri figli – cioè che un terzo delle famiglie italiane non è dotata di un computer a casa – anche questa è colpa dell’Europa? Esiste una soluzione che si chiama digitalizzazione.
Ci vuole onestà intellettuale nell’ammettere che ci sono altre e molte spiegazioni a problemi che non dobbiamo ignorare e che non dipendono dall’Europa.
Ricordiamoci. Abbiamo dovuto superare due conflitti mondiali, che non hanno sempre permesso di concentrarci sullo sviluppo delle nostre economie locali, un lungo periodo basato su un’economia di guerra, anche in termini di capitale umano in quanto serviva “carne da macello”.
Vogliamo veramente continuare ad osannare oppure tornare a quei periodi?
Anche queste cose vanno dette. All’Europa non può essere imputato tutto, semmai l’Europa è venuta a sanare molte di queste situazioni.
La nostra posizione di secondo paese manifatturiero d’Europa, che vuole ritornare a produrre anche le mascherine in casa, non deve farci assumere decisioni sbagliate.
Fattori come:
- la nostra posizione di paese scarsamente digitalizzato e che non riesce ad organizzare corsi a domicilio per tutti i nostri scolari
- le imprese che sono scarsamente digitalizzate
- il fatto che siamo un paese che non ha abbastanza materie prime né energetiche per sostenere uno dei sistemi manifatturieri orientati all’export più produttivi ed efficienti al mondo
non ci devono allontanare dall’Unione Europea. Perché questa contribuisce attivamente a procurarci e garantirci vie preferenziali e sicurezza nell’approvvigionamento in materie prime ed energetiche.
L’attuale livello insufficiente di iniziative, nonché la tarda responsabilizzazione degli amministratori locali si spiega anche attraverso molteplici fattori.
Citiamo ad esempio l’eccessiva centralizzazione dello Stato nato con l’unità d’Italia stessa, scelta fatta nel terrore di vedere frantumati tanti sforzi compiuti per mettere insieme popolazioni, culture, lingue e livelli socio-economici differenti. Fu questa paura della disgregazione ad impedire l’applicazione di un certo “principio di sussidiarietà”. La vera domanda che ci dobbiamo porre oggi è la seguente: esiste ancora un rischio di disgregazione dell’Italia che possa giustificare l’impedimento alla decentralizzazione?
Poi c’è l’elettività dei sindaci – diventata realtà in Italia moderna solo nell’anno 1993 – ma in realtà una proposta già formulata da politici italiani come Marco Minghetti nei primi anni della Nazione.
Per quanto riguarda le politiche fiscali, come non fare un paragone tra le lamentele sulla tassa della benzina di oggi con quelle sul macinato (e quindi sul pane, l’alimento principale dei poveri) del 1869?
La scelta di una politica che colpisce più i consumi che i redditi non nasce oggi e non è certamente imputabile all’Unione Europea.
In effetti, solo dopo la fine dei conflitti armati sul territorio europeo e dopo l’adesione all’Unione Europea abbiamo potuto assistere e vedere un meridione – ripeto dove ci sono ancora molte cose da fare – che si è potuto avviare verso una rincorsa del Nord, che beneficia tutt’ora di molte infrastrutture come ferrovie nate dall’economia di guerra. Ma è vero che queste infrastrutture rimangono insufficienti.
Infine, guardiamo lontano da casa nostra, in questo vasto mondo nel quale l’epicentro delle attività economiche si sta orientando sempre più verso l’Asia.
Nei momenti del culmine della crisi del coronavirus, alcune fonti hanno parlato di 200.000 italiani in giro per il mondo in attesa di rientrare verso casa. Come intendiamo gestire un flusso di rimpatrio così grande: stando chiusi su noi stessi e rifiutando una maggiore aggregazione con i nostri partner europei?
Ma soprattutto grande lucidità e gran senso delle priorità dovranno accompagnarci nelle nostre scelte per evitare, ad esempio, di buttare via il bambino con l’acqua sporca. L’analfabetismo digitale, il mancato inserimento delle donne nel sistema economico-produttivo – malgrado le loro capacità e i loro livello di formazione, donne chiaramente sottoutilizzate – e la senilizzazione della società italiana, sono i nemici più importanti di un’Europa che deve essere certamente riformata. Dobbiamo schierarci in modo chiaro ed inequivocabile per difendere gli interessi legittimi di un paese membro fondatore come l’Italia.
In questa crisi, abbiamo visto qualcosa di bello. Abbiamo visto il tricolore sui balconi e ci dobbiamo rallegrare per questa ritrovata “coscienza nazionale” che mi ricorda quella espressa durante l’Expo2015. E dobbiamo smettere con l’autodenigrazione e la critica eccessiva.
Uscire dalla crisi ci richiederà molti sforzi dei quali abbiamo mancato in anni di pace, di prosperità e di crescita economica relativamente positiva, specialmente una flessibilità cognitiva che ci dovrebbe portare a risolvere nuovi problemi con soluzioni rapide.
Ma ripeto, abbiamo anche bisogno dell’onestà intellettuale: non negare difficoltà come la questione delle ineguaglianze, tutte le questioni alle quali siamo stati esposti con l’adesione all’Unione Europea, ma anche – senza dimenticare – che siamo il paese che ha denunciato – in tempi non sospetti – “il Patto di stupidità” oggi sospeso, aprendoci così nuove strade che dobbiamo percorrere senza ritardi, per affrontare vecchie e nuove sfide.