Imprenditorialità. Continuiamo a cedere all’estero più imprese di quante ne acquistiamo

Questo titolo – prima di fornire alcuni dati e soprattutto per non incappare nel solito disfattismo che colpisce spesso l’Italia – merita varie premesse.

La prima. L’economia nella quale viviamo è un’economia aperta. La preferiamo sotto il suo aspetto di “economia sociale di mercato”, che è stata capace per moltissimi anni e ancora fino ad oggi – pur con qualche vistosa difficoltà – di creare pace, ricchezza e benessere.

La seconda. Nonostante le sue difficoltà, l’imprenditorialità italiana, cioè di un paese che ha perso la seconda guerra mondiale, è riuscita a far sì che l’Italia possa oggi occupare il secondo posto di economia più manifatturiera d’Europa, dietro una Germania irraggiungibile.

La terza. L’Italia (contrariamente alla Francia che sta in saldo negativo da anni) è un campione nel mettere in fila saldi positivi di export (nel 2015, l’Italia registra un più 45 miliardi di euro rispetto ad un saldo negativo pari a meno 46 miliardi della Francia).

La quarta. L’Italia ha un numero di imprese esportatrici superiore alla Francia nonostante i moltissimi prodotti transalpini riconosciuti nel mondo ed i margini che loro sono in grado di generare. Non dimentichiamo un’invidiabile e straordinaria rete diplomatica, una storia di influenza mondiale di quel paese e della sua lingua in grado di indirizzare i consumatori verso i prodotti francesi.

La quinta. Rispetto ad altri paesi del mondo, l’Italia è un paese senza materie prime nel quale si produce di tutto, sia in termini artigianali che tecnologici, a partire dalle calzature che si fanno ancora a mano, fino alle macchine per gestire i codici a barre, diventati oggi indispensabili nell’economia e nella logistica moderne.

Le nostre difficoltà rimangono le solite: la piccola dimensione delle aziende che ne impedisce la proiezione internazionale o l’accesso al credito.

Poi ci sono le problematiche legate alla volontà degli imprenditori-fondatori di introdurre il fattore manageriale – pur in presenza di un paese capace di sfornare manager di caratura internazionale – per la gestione delle aziende, preferendo membri delle loro famiglie. Non sarà un caso che solo una piccola parte delle imprese familiari italiane riescano a raggiungere la terza generazione. Questa sciagura non si potrebbe evitare, convincendo i nostri imprenditori geniali e creativi ad accelerare i processi di passaggio generazionale e soprattutto, scegliendo di optare almeno per una “governance aziendale” fatta di un mix tra manager e famiglia?

Il PD Marche è convinto che si possa fare, anche perché nelle Marche e in Italia la sopravvivenza delle imprese non significa aiutare i ricchi. Significa salvare, creare e qualche volta anche dover trasformare posti di lavoro. E non dimentichiamo che è proprio attraverso questi posti di lavoro che si crea, si sviluppa e si esprime la dignità dei marchigiani e degli italiani.

Fatte queste premesse, passiamo ai dati che ci fanno capire che dal punto di vista dell’imprenditorialità, le Marche e l’Italia hanno ancora moltissimo lavoro da fare.

In un articolo pubblicato su Repubblica.it l’11 Settembre 2017, Rosaria Amato traccia un quadro molto chiaro sulle vendite di aziende italiane e acquisti da parte di aziende italiane. In questo caso, contrariamente al nostro export fiorente, siamo in una situazione di saldo negativo. In effetti, i numeri parlano chiaro: “nei primi sei mesi di quest’anno, si legge nell’ultimo report, sono state registrate 132 operazioni “in ingresso” (cioè di acquisizioni di aziende italiane) per un controvalore di circa 9,7 miliardi di euro, in crescita di 3 miliardi rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.” E non si tratta solo di prodotti agroalimentari. Rosaria Amato continua scrivendo: “Invece il filone delle operazioni Italia su estero si presenta molto più modesto nello stesso periodo: solo 75 operazioni per un totale di quasi tre miliardi di euro”. 132 aziende vendute contro 75 acquisite è un saldo negativo pesante.

Quali sono le motivazioni?

Sappiamo che le motivazioni delle vendite sono spesso l’incapacità di crescere oltre una certa massa critica con le nostre stesse forze (o volontà), le difficoltà di accesso al credito per finanziare la crescita, l’accesso alle grandi catene mondiali di distribuzione, senza dimenticare la difficoltà tutta nostrana a fare una scelta di guida manageriale delle aziende.

E la lista di queste cause non è esaustiva.

È inoltre di recente scoperta che, dopo una grande fatica a promuovere e ad ottenere la creazione di numerose start up in Italia, anche queste siano oggi colpite da difficoltà di accesso al mercato. Soprattutto internazionale. Difficoltà ancora più gravi se pensiamo che alcune nascono già a vocazione globale.

A questo punto, la domanda vera diventa: ma c’è qualcosa che non funziona nella nostra imprenditorialità?

Nonostante la grande capacità creativa marchigiana e italiana – che si esprime soprattutto nell’architettura, nel design e nella risoluzione di problemi ingegneristici complessi – bisogna ammettere che la nostra imprenditorialità abbia anche dei difetti.

La nostra imprenditorialità deve rapidamente cambiare corso per sostenere la sfida di conquista di un mondo completamente nuovo.

Per raggiungere questo risultato, la nostra imprenditorialità deve smettere di escludere. Deve imparare ad includere i giovani e l’altra metà del cielo. Deve imparare ad affrontare la sfida della dimensione e ad andare sempre più lontano da casa nostra, anche perché l’Europa (dove le Marche esportano, per fare un esempio negli ultimi quattro anni, dal 2013 ad oggi, oltre il 70% del loro export), rappresenta ormai un vero e proprio “cortile di casa”.

L’imprenditorialità marchigiana deve infatti prendere atto che bisogna andare a cercare la crescita economica dove sta, altrove, e questo significa spostarsi rapidamente verso l’Asia per fare volumi, ma senza dimenticare gli Stati Uniti per inseguire i margini.

Lavorando in questo modo, ma soprattutto in una dimensione più internazionale, potremmo rapidamente aumentare il numero delle nostre aziende eccellenti, riuscendo così ad affrancarci del nostro ruolo di aziende non predatrici e diventare capaci di creare ed aumentare posti di lavoro in favore dell’Italia e dei suoi cittadini.

Ma per raggiungere questo risultato, per affrontare e risolvere le numerose sfide, serve un luogo (il cosiddetto “Centro di Imprenditorialità Diffusa”) che trasformi l’imprenditorialità marchigiana da una “Comunità di intenti” in una “Comunità di destino”, capace di diventare un modello di rinascimento economico per tutta l’Italia.

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