Dopo la scomparsa di autorevoli imprenditori marchigiani come Mario Clementoni, Giovanni e Giuseppe Guzzini, Vittorio Merloni, arriva la notizia della dipartita di un calibro nazionale come Bernardo Caprotti, fondatore di Esselunga, importante attore e pedina nel mondo della grande distribuzione in Italia, scomparso all’età di 90 anni.
Questi imprenditori, tutti, hanno avuto il merito di aver affrontato la sfida della dimensione delle loro aziende, dimostrando che partire dal basso e da angoli remoti dell’Italia non significa rimanere obbligatoriamente piccoli e privi di coraggio nell’affrontare i grandi del proprio settore. Anzi, alcuni hanno anche sfidato processi di internazionalizzazione di tutto rispetto, realizzandoli fin da tempi non sospetti.
Per Bernardo Caprotti si è trattato di un vero e proprio capolavoro, anche se l’azienda non ha conosciuto un’espansione internazionale. Lascia un gruppo solido che nel 2015 conta circa 22.000 dipendenti e con un fatturato di 7 miliardi di euro. Tutto questo con soli 150 punti vendita, con una quota di mercato di 9,7%, tenendo testa ai grandi gruppi italiani e francesi della Grande Distribuzione Organizzata (GDO).
Tutti questi imprenditori ci hanno regalato grandi lezioni che, oltre a dover imparare bene, dobbiamo soprattutto impegnarci a diffondere, specialmente in un momento di crisi come quello che stiamo vivendo dal 2008.
Perché a dispetto di quelli che ce l’hanno con l’Euro e con l’Europa, sarebbero bastate grande dimensione e proiezione internazionale delle nostre imprese per essere fuori dalla crisi e – insieme alla Germania – conquistare il mondo con i nostri prodotti.
Ma la sorte ha voluto che le cose andassero in maniera diversa.
In effetti, proprio in Germania, azienda familiare non rima sempre con piccola dimensione. Quando si parla di aziende familiari lì si parla di nomi e prodotti conosciuti anche da noi, come Volkswagen AG, BMW Group, Schwarz Gruppe (che controlla i discount “Lidl”), Robert Bosch GmbH, Metro AG, Continental AG, Henkel AG & Co., Dr. August Oetker KG, Würth Gruppe, Liebherr Gruppe, ecc. Queste aziende fanno parte delle prime 25 aziende familiari tedesche e hanno, tutte, un fatturato superiore ai 9 miliardi di euro. Basta guardare ad alcune per rendersi conto di come la sfida della dimensione e quella della proiezione internazionale siano le vie da affrontare e che dovremmo per forza imparare a percorrere.
Oltre a queste sfide aperte se ne stanno delineando altre più scontate o più sottili.
Se sulla necessità di continuare ad utilizzare creatività ed innovazione come motore di sviluppo e come fattore di competizione nessuno in Italia ha dubbi o perplessità, la cosa è diversa su altro. Sembra che siano ancora troppo pochi gli imprenditori che credono alla necessità di rivoluzionare i “business model” delle aziende marchigiane, all’obbligo di guardare alla trasversalità delle discipline e alla massiccia introduzione dello sviluppo durevole e della responsabilità sociale delle imprese, nell’ambito delle proprie attività imprenditoriali. O meglio, sembra che siano ancora in pochissimi, nell’ambito delle proprie attività imprenditoriali, a muoversi verso tali direzioni.
Pertanto, nessun dubbio circa il nostro potenziale creativo, le nostre capacità di unire la sfera della funzionalità dei prodotti alla loro capacità di suscitare emozioni.
Eppure, ci sono strade, tappe necessarie e irrinunciabili che dobbiamo affrontare se vogliamo conquistare mercati maturi, oppure se vogliamo specializzarci nella manifattura di prodotti ad alto valore aggiunto. Industria 4.0, vecchie e nuove forme di trasversalità tra settori, tracciabilità, ecologia e riciclaggio, apertura alle scienze e alla tecnologia (moda-musica-arte, talenti individuali, diversità e lotta per le cause collettive, per esempio), ci richiederanno una capacità non innata né automatica nell’imprenditorialità italiana, più incline all’individualismo e alla personalizzazione dell’impresa.
Si tratta della capacità di collaborare, a medio e lungo termine, non solo con lo scopo di lasciarci dietro la crisi. Questa capacità e necessità di collaborare è resa estremamente urgente – non solo dalla tipologia della profonda crisi che ci ha colpiti – ma anche dalla necessità di “fare presto”, per agguantare la ripresa economica e conquistare quote di mercato in un contesto economico globale che cresce sempre di più, ma sempre più lontano da casa nostra.
Agroalimentare, meccanica, calzature e pelletteria, moda e lusso marchigiani non devono essere immuni a questi cambiamenti. Dobbiamo continuare a porci delle domande, come, per esempio, se il negozio virtuale, che continua e deve continuare a viaggiare sui computer, tablet e adesso sui cellulari/smartphone, andrà ad eliminare il negozio fisico e se non serviranno più le nostre competenze e gusto nell’allestire le vetrine con il famoso “Italian touch” (tocco italiano).
Come il computer non ha ucciso la carta, molto probabilmente il marketing digitale ed il commercio elettronico non uccideranno il negozio fisico, che potrebbe cambiare semplicemente uso e destinazione nelle politiche commerciali delle aziende.
Dobbiamo riprendere lo stesso coraggio di questi imprenditori che ci hanno lasciato, ricordandoci che il prodotto come qualsiasi giocattolo deve essere pensato, come qualsiasi impianto di luce deve essere studiato da un punto di vista tecnico ed emotivo, come qualsiasi elettrodomestico deve essere realizzato e che come qualsiasi prodotto negli scaffali del supermercato deve essere distribuito.
È lungo tutta questa catena che le aziende marchigiane devono ripensare le loro attività, ragionando in maniera globale sia da un punto di vista della creatività che di strategia e cercando di sviluppare il più possibile l’influenza, altro nuovo capitolo che le aziende italiane sono chiamate ad aprire molto velocemente.