Il G20 di Amburgo ha visto numerose proteste pacifiche, purtroppo coperte dagli atti di violenza di alcuni gruppi. Tra le sue affermazioni, il G20 ha sancito che “il commercio libero e aperto viene riconosciuto come motore della crescita, della produttività, dell’innovazione e della creazione di posti di lavoro” anche se viene “riconosciuto il ruolo legittimo di strumenti di difesa nazionali”.
Ma come siamo messi nelle Marche e in Italia? Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.
Il lavoro è la preoccupazione numero uno degli italiani, non solo da oggi, ma dai tempi delle grandi migrazioni all’estero con partenze sulle navi da Genova verso l’America, dai tempi delle emigrazioni in massa degli abruzzesi verso il Canada, dalle migrazioni interne da Nord verso Sud che hanno provocato la diffusione del cognome Esposito in Lombardia e Piemonte.
Il lavoro è sempre stato una priorità per gli italiani, se guardiamo ai numerosi concorsi a livello nazionale e conseguenti viaggi in massa all’interno del paese alla ricerca del posto fisso. La “priorità lavoro” si è anche tradotta nel fenomeno recente della fuga in massa di giovani e di meno giovani verso l’estero, per subire meno freni, pressioni sociali o semplicemente per trovare condizioni migliori o il riconoscimento delle proprie capacità.
La crisi del 2008 sta per compiere dieci anni. È inutile continuare a pretendere che questo del lavoro non sia stato il fenomeno che abbia marcato profondamente la nostra società italiana e a non voler vedere che sia lo scoglio da superare per uscire dalle conseguenze di questa crisi.
Negare “la questione italiana del lavoro” significa essere in malafede oppure aver deciso di chiudere gli occhi, condannando così le future generazioni dell’Italia, che rappresenta, lo ricordiamo, l’attuale potenza industriale d’Europa seconda alla Germania.
Negare “la questione italiana del lavoro” significa condannare i giovani alla precarietà o all’eterna ricerca di un posto di lavoro lontano da casa o addirittura all’estero. Lontano dalle proprie famiglie, dal proprio clima e dalle proprie abitudini alimentari.
Eppure, sulla carta, i numeri e i fatti ci danno ragione.
Abbiamo più imprese esportatrici della Francia. Per l’esattezza, due volte in più il numero di quelle francesi, come dichiarava il francese Mattias Fekl nel 2014, all’epoca Segretario di Stato agli Affari Esteri e allo Sviluppo Internazionale, incaricato di seguire commercio estero, promozione del turismo e dei francesi all’estero.
Da anni in Italia abbiamo un saldo export positivo, mentre i cugini transalpini, che hanno compiuto l’ennesima rivoluzione in Europa con l’elezione di un giovane non ancora quarantenne, navigano in profondo rosso sul commercio estero.
Non parliamo poi del “Made in Italy” richiesto ovunque in un mondo che continua a correre, ma da cui traggono più benefici gli imprenditori che usano “l’Italian sounding” (prodotti con nomi “italiani o italianeggianti”) per piazzare i loro prodotti nei negozi e nelle catene della grande distribuzione nel mondo intero.
Perché questo grande successo nei numeri di export rispetto ad altri concorrenti agguerriti (nel 2015 export Italia € 413 miliardi, export Francia € 455 miliardi. Questi dati dicono che la Francia ci batte “a valore”? In realtà confrontando il saldo import/export 2015 dei due Paesi risulta che l’Italia ha registrato un + €45 miliardi, mentre la Francia un saldo negativo pari a -€46 miliardi) e meno successo nell’espansione internazionale delle nostre imprese o nello sfruttamento di fenomeni mondiali come il “Made in Italy”?
Il primo problema – anche se in relazione al successo del nostro export che continua ad espandersi – non si può che spiegare, in primis, partendo dalla grave questione legata alla piccola dimensione delle nostre imprese. Il secondo problema va collegato alla loro scarsa digitalizzazione.
Non è un fenomeno che colpisce solo l’Italia e le sue aziende, ma tutta l’Europa.
Noi abbiamo in più una eccezione marchigiana da gestire (e quella italiana) dovuta al fatto che veniamo “semplicemente penalizzati” da un elemento positivo. Quello di essere una grande potenza industriale che – chiaramente – se non si lancia nel nuovo mondo digitale finisce per non trarre i benefici che questo mondo completamente nuovo ci offre.
Il terzo problema è che, oltre la digitalizzazione, siamo rimasti indietro nell’affrontare vecchie e nuove sfide in questo nuovo mondo.
Questo costituisce una ulteriore aggravante che può spiegare in maniera semplice come mai ci troviamo oggi in questa situazione.
Oggi si parla molto della via della seta, nuova rotta di trasporto terrestre che avrà – senza dubbio – un impatto importante sull’espansione del commercio mondiale che ci sarà e dalla quale l’Italia non deve e non può permettersi di rimanere fuori.
L’Italia non si può più permettere di mancare il suo ingresso in questa ulteriore pagina di nuova globalizzazione. La prima fase, dopo la caduta del Muro di Berlino, l’abbiamo mancata per cause di forza maggiore come tangentopoli e la crisi della politica, che per anni si è sviluppata in Italia e che – oggi – si sta verificando e manifestando di nuovo attraverso il populismo.
Oggi si parla di fenomeni di impatto mondiale come quello di una globalizzazione di stampo cinese, del ritorno degli Stati Uniti sul mercato mondiale dei prodotti manifatturieri.
Le Marche e l’Italia devono rispondere a questa chiamata. E in una fase di crollo del mercato interno la risposta si chiama internazionalizzazione. Per il bene dei loro cittadini. Perché questi fenomeni che abbiamo elencati e che sono in corso – se affrontati bene e con le giuste strategie – significano posti di lavoro e un futuro certo di espansione economica che dobbiamo trasformare nel ritorno del benessere sulle nostre colline marchigiane, simbolo evocativo della nostra terra.
E questo si potrà ottenere solo aumentando le attività nelle nostre zone industriali, portando turismo nei nostri borghi e sulle nostre spiagge, non dimenticando che stiamo lavorando non soltanto per noi, ma soprattutto per le future generazioni.