Il fallimento o il ritardo di un passaggio da un’era economica all’altra è purtroppo una cattiva abitudine che non dobbiamo far diventare una costante negativa nella storia dell’Italia.

A memoria d’uomo, questo avvenne, per esempio, già durante il passaggio dalla società agricola a quella industriale. Era una fase nella quale si lottava per la redistribuzione delle terre mentre imperversava l’industrializzazione della nostra economia, caratterizzata dalle migrazioni dalla campagna alle città e dalle migrazioni dal Sud verso Nord (era il periodo delle grandi industrie tra cui l’Olivetti). Non sarebbe un azzardo paragonare quel periodo a quello odierno, nel quale le start up italiane stanno facendo fatica a trovare la loro via sul mercato, abbandonate dalle attenzioni dell’amministrazione pubblica che spesso e volentieri ne ignora l’esistenza e le potenzialità. Ci vuole un partenariato pubblico-privato.

Il secondo esempio che possiamo fare fu il passaggio della caduta del Muro de Berlino, che aprì alla globalizzazione per molti paesi, ma che proiettò invece l’Italia subito dopo nello scandalo di Tangentopoli, impedendo di fatto di prestare attenzione all’internazionalizzazione dell’economia, alla preparazione e/o al sostegno delle aziende italiane nel rapido adattamento al nuovo contesto internazionale.

Eppure, coloro che ne hanno tratto vantaggio erano sistemi e paesi forti di capacità esportatrice come il nostro.

Ecco come la Germania si è avviata da sola verso il trono di campione di export mondiale, lasciando e seguita a passo di lumaca dal sistema italiano in ritardo nello sviluppo dei mercati esteri, basato sulla singola decisione degli imprenditori, invece di generare uno schema largo e visionario.

Qui è mancato – in modo chiaro e al di là di ogni ragionevole dubbio – ogni meccanismo sostenuto dall’amministrazione pubblica, nonché dalla diplomazia economica italiana che avrebbe dovuto essere appoggiata dalla classe dirigente al potere in quel momento. Questa strategia si sarebbe giustificata con la necessità di difendere posti di lavoro invece di interpretarla come aiuto o privilegio garantito agli imprenditori.

Il terzo esempio che possiamo fare è quello degli anni Duemila, durante i quali aspre lotte di potere fra destra e sinistra e divisioni interne in ogni campo politico fecero passare la rivoluzione di Internet quasi inosservata dalla classe dirigente, dal paese. E questo, nonostante il protagonismo e la partecipazione di numerosi attori ed aziende italiane a questa rivoluzione.

Da qui dobbiamo datare il fallimento della partecipazione alla rivoluzione digitale, che provocherà la famosa e-transformation, la trasformazione dei modelli economici che oggi gestiamo a fatica. Abbinata alla mancata internazionalizzazione delle nostre imprese, è quella che ci ha proiettati in questa situazione nella quale ci troviamo, cioè di fronte alla palese difficoltà di molte delle nostre imprese nel rispondere alle esigenze del mercato e – con grande nostra sorpresa – alla base dell’impossibilità dei nostri figli di partecipare a lezioni da casa (un terzo delle famiglie italiane non sono dotate di un computer in casa).

Aver sbagliato la strategia di priorità nell’organizzazione dell’industrializzazione, rispetto alla redistribuzione delle terre, aver ignorato di lanciare le imprese italiane nel processo di globalizzazione nel momento storico appropriato per rinchiudersi o concentrarsi in problematiche di politica interna, ed infine il fallimento del lancio delle imprese italiane e le famiglie nella grande sfida della digitalizzazione, sono tra i tre o quattro fattori che in grande parte – e non l’Europa – sono cause e spiegazioni del nostro sistema economico che era sempre in difficoltà, anche quando gli altri andavano molto bene. E purtroppo, questa situazione, ce la trasciniamo fino ai giorni nostri.

La crisi inaspettata del Coronavirus, che causa la malattia Covid-19, non deve diventare un’altra occasione perduta per risolvere i nostri problemi strutturali: bisogna evitare scelte sciagurate come il ripudio dell’Unione Europea, designato capro espiatorio di questa tragedia, e ricordare l’urgente bisogno di affrontare questioni come la digitalizzazione della società italiana eliminando il divario con altri paesi europei.

L’urgenza di affrontare queste vecchie e nuove sfide per il sistema economico richiede uno spazio paragonabile alle botteghe del medioevo. Proprio da quei posti iniziarono molteplici fenomeni di contaminazione che hanno prodotto il miglior consuntivo delle conoscenze del momento, raggruppato i migliori talenti dell’epoca per dar luogo e fare ancora oggi dell’Italia il paese culla del rinascimento, e del luogo nel quale si trova oltre la metà del patrimonio culturale artistico del mondo.

Questo luogo da creare deve essere il Centro di Imprenditorialità Diffusa, un luogo di contaminazione tra manifattura, cultura, scienza, arte ed innovazione, in cui difendere il patrimonio imprenditoriale, artistico, artigianale esistente, individuando delle capacità manageriali e un partenariato pubblico-privato per incrociare tutta una serie di fattori capaci di generare un nuovo rinascimento industriale. Un momento delicato nel quale dobbiamo essere attenti a creare un futuro con uno sviluppo, nel quale dobbiamo mettere sul tavolo liquidità per le aziende, responsabilità sociale dell’impresa, tecnologia al servizio dello smart working ma anche per i rapporti con i clienti, responsabilità e capacità di cambiare, insistere nell’investire sulla formazione, sulla protezione di un ambiente al quale il mondo che si è fermato ha giovato. Tutto questo per garantire alle Marche uno sviluppo senza fratture.

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