Gli eventi storici degli ultimi mesi hanno sancito la definitiva chiusura e l’uscita dal mondo della guerra fredda.

La Cina, ex paese comunista, sta prendendo il largo e aumentando il passo in termini di potenza economica, commerciale e militare; l’Europa sta finalmente mettendo insieme i pezzi per costruirsi una “Difesa Europea”, bocciata nel 1954 dal Parlamento francese; il Regno Unito, in seguito al referendum della Brexit, rischia una divisione interna con Scozia e Irlanda del Nord, perché vuole uscire dall’Unione Europea – salvando l’unione del Regno – ma senza uscire dal mercato unico.

Altri fatti segnano questo passaggio storico.

L’attacco, in collaborazione con la Russia, al cuore del cosiddetto autoproclamato Stato Islamico continua a provocare vittime e spostamenti in massa di popolazioni in fuga dalla guerra. L’elezione “popolare” di Donald Trump ha parzialmente sconfessato la scelta di eleggere il primo Presidente afroamericano della storia degli Stati Uniti e ha rimandato alle calende greche quella dell’elezione della prima donna in quel ruolo. Le primarie (pratica inventata in Italia) in Francia hanno già designato il candidato di destra liberale ed ex primo ministro François Fillon mentre la sinistra si appresta a preparare le sue, dopo la storica rinuncia del presidente francese uscente, François Hollande, per ripresentarsi in un secondo mandato. Infine, i funerali “popolari” di Fidel Castro aprono uno scenario nuovo per la popolazione di Cuba e le sue relazioni con il mondo, nonché la questione di come la politica di un “socialismo atipico” possa essere portato avanti sull’isola e nel mondo.

Il mondo del politicamente corretto, dei diritti umani e civili, della solidarietà internazionale, della volontà delle nazioni di collaborare nell’ambito del multilateralismo, del ripudio dei nazionalismi e che considera la globalizzazione come un elemento di unione tra le varie parti del mondo, è in profonda crisi.

Eppure, ci siamo dimenticati le grandi guerre, i suoi bombardamenti a tappeto e i numerosi morti civili e militari, specialmente nel campo di quelli che consideriamo nostri nemici come la Russia. Ci siamo dimenticati della decolonizzazione, certo “imperfetta” e forse troppo rapida, ma che ha liberato interi popoli. Ci siamo dimenticati della ricostruzione dell’Europa e del Giappone, dopo le bombe di Hiroshima e di Nagasaki e del Piano Marshall. Ci siamo dimenticati del miracolo economico italiano.

La conflittualità tra e all’interno delle nazioni è diventato di nuovo un terreno sul quale ci si affronta senza regole, senza ritegno e con accuse gravi e spesso menzognere, che possono, a lungo andare, essere in grado di riportare la violenza su larga scala e sul Continente europeo.

Per l’Italia i giornali esteri hanno parlato di “Italexit”, ma noi in casa nostra sappiamo benissimo che il voto sul referendum era, in parte, una critica anche all’Europa, ma non necessariamente la voglia di uscirne. Certamente, per una parte delle nostre imprese, l’Euro rappresenta un problema, ma lo sono in misura maggiore – molto di più – l’accesso al credito e quello ai mercati.

Altro elemento riguarda la globalizzazione che – lo dobbiamo riconoscere – non ha portato solo punti positivi. Ma è a causa di questo e proprio in questo momento che dobbiamo scappare dalla globalizzazione?

Proprio quando gli Stati Uniti eleggono un Presidente imprenditore che ha interessi economici sparsi per tutto il pianeta? Proprio quando questo Presidente eredita un paese ridiventato manifatturiero e che, con i prezzi del petrolio che salgono, renderà la produzione di petrolio e di gas a livello nazionale di nuovo conveniente? Proprio mentre lo stesso Presidente Donald Trump si circonda di un “consiglio di saggi” composto principalmente da imprenditori e grandi manager? È interessante vedere come il Presidente eletto degli Stati Uniti abbia motivato questa scelta, perché si tratterebbe di un organo consultivo che servirà regolarmente a dare “il proprio punto di vista su temi come quelli della crescita, dell’occupazione e della produttività”. I membri di questo consiglio non sono eminenti professori universitari, economisti, ricercatori o membri della società civile. No. Si tratta maggiormente di Manager di grandi aziende e di caratura mondiale. A presiedere il comitato sarà Steve Schwarzman, il capo del fondo Blackstone. Poi ci saranno pesi di un certo calibro provenienti da aziende quotate in borsa come l’amministratore delegato di JP Morgan, Jamie Dimon, quello di Disney Michael Eisner, e le donne che stanno a capo della IBM, Ginni Rometty, e di General Motors, Mary Barra. Ci sono anche Lawrence Fink, di BlackRock e l’ex di General Electric Jack Welch.

Se questo era un Presidente contro la globalizzazione – è vero che in questi giorni sta minacciando le aziende che vogliono delocalizzare – diciamo che le sue scelte indicano invece la volontà di dominare il mondo dei mercati internazionali.

Prendiamo dunque rapidamente atto che il liberismo e la globalizzazione saranno considerate negative solo quando andranno a ledere gli interessi degli Stati Uniti. Prendiamo atto che questa continuerà e che invece dobbiamo imparare a governarla. Dobbiamo imparare a difenderci, difendere i nostri territori e i nostri valori, ma anche a dare sfogo alla nostra capacità creativa e a salvaguardare il lavoro attraverso la promozione dello sviluppo – anche internazionale – delle aziende italiane.

Dopo la partenza di Matteo Renzi e il fallimento delle riforme, restano – oltre alla questione della gestione del terremoto – i molteplici problemi del passato. Per esempio, se le competenze delle regioni rimangono immutate ma bisogna migliorare le modalità con cui le attuano, a chi spetta e come aiutare le nostre imprese nel processo di internazionalizzazione?

Tutti i segnali indicano che gli Stati Uniti sono diventati di nuovo, a tutti gli effetti, una potenza manifatturiera e che vogliono continuare ad esserlo. Da questo punto di vista sono pertanto nostri concorrenti. Non danno invece segnali particolari di chiusura del loro mercato, a parte la politica dichiarata di voler ridurre i deficit con l’estero e la volontà di bloccare i negoziati del Trattato Atlantico.

Invece la Germania stabile, che il prossimo anno entra nella stagione delle elezioni, continua ad essere la prima potenza manifatturiera d’Europa e un modello di come ci si organizza e di come si creano e si proteggono posti di lavoro inserendo nel mondo del lavoro anche le donne. E l’Italia – seconda – è ancora costretta ad inseguire.

Se riformare non ci è riuscito, il PD Marche non si può sottrarre dallo straordinario dovere di promuovere l’internazionalizzazione delle aziende italiane, non perché la globalizzazione va difesa con le unghie e con i denti, ma perché va governata, visto che se l’instabilità e la crisi non favoriranno il mercato interno ancora per un lungo periodo, i posti di lavoro delle Marche dipenderanno – è la realtà sulla quale non possiamo modificare un granché – dalla capacità delle nostre aziende di proiettarsi sui mercati globali.

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